domenica 23 gennaio 2022

La moderna Inquisizione

Nel corso dei secoli l’arroganza della prevaricazione ha infettato, come un virus letale, poteri politici e religiosi che, trincerati dietro false maschere di perbenismo e moralità, hanno tentato di annientare la libertà di pensiero di chiunque potesse metterli in discussione.

Tutta la storia dell’umanità è intrisa di ingiustizie e di abusi, che hanno rivelato con cruda ferocia a quanto l’animo umano possa arrivare, a quanto l’uomo sia capace di compiere pur di affermare se stesso a scapito dal proprio simile. Ma al tempo stesso è intrisa del coraggio, della determinazione e della tenacia di chi ha opposto il valore inappellabile e inalienabile della propria libertà di pensiero.
Realtà umana, che traspare in tutta la sua forza nel libro del 1964 di Leonardo Sciascia “Morte Dell’Inquisitore”. Un’inchiesta storica in cui lo scrittore siciliano ripercorre la triste vicenda del frate di Racalmuto, Diego La Matina (1622-1658) che fu vittima della follia repressiva che contraddistinse l’Inquisizione spagnola in Sicilia, tra il XV e il XVIII secolo che, con la connivenza del potere locale, condusse al rogo 234 vittime.
Sciascia, basandosi sui pochi documenti a disposizione - nel 1783, un anno dopo l’abolizione dell’istituto dell’Inquisizione, l’archivio del tribunale a Palermo fu incendiato per ordine del vicerè Caracciolo - scrive che fra Diego la Matina fu arrestato con l’accusa di eresia per ben tre volte, ma era stato liberato poiché aveva abiurato. Ma nel 1656 fu arrestato di nuovo e condotto alle carceri di Palazzo Steri a Palermo, da dove riuscì a fuggire ma solo per un breve periodo. Durante quest’ ultima carcerazione subì incessanti torture che, logorandolo, lo indussero a scagliarsi contro il suo carnefice, monsignor de Cisneros, e a colpirlo con i ferri che aveva ai polsi, uccidendolo.
Questo suo ultimo atto gli valse la pena di morte. Così due anni dopo fu preparato uno spettacolo pubblico, con palchi addobbati, invitati illustri e banchetti per celebrare la sua condanna.
Fu condotto legato a una sedia e imbavagliato davanti al tribunale dell’Inquisizione presieduto da Los Cameros e gli fu letta la sua colpa: ERETICO.
E, poco prima di morire, a dimostrazione che non si era piegato, pronunciò una frase emblematica: Dunque Dio è ingiusto.
Parole forti che racchiudono in sé, tutta la sua disperata consapevolezza dell’ingiustizia imperante nella società, nelle leggi che la regolavano e nella religione che agiva con ferocia proclamandosi invece una fede di carità e amore
Le menzogne proferite dagli inquisitori, rivelano tutta la loro nefandezza nell’accusa mossa al frate di essere un uomo rozzo, incolto e ignorante, quando invece egli era perfettamente in grado di sostenere discussioni dotte come nell’ultima notte con i nove teologi che tentarono di farlo abiurare. La loro ipocrita mistificazione della realtà mostra con evidente chiarezza il modus operandi della Santa Inquisizione, una struttura ben organizzata e disposta a tutto pur di schiacciare ogni forma di indipendenza intellettuale.
Ma, come scrive Sciascia, fra Diego rimase immutato e fermo nel suo “Tenace Concetto”, e sostenne con determinazione una sua concezione della vita e della religione anche se in contrasto con quelle che la Chiesa voleva imporre.
Attraverso la sua storia Sciascia, mise in primo piano la fierezza di un uomo che non ebbe paura di far sentire la sua voce, che “agitò il problema della giustizia” contro le ingiustizie sociali, contro le iniquità e contro le usurpazioni dei beni e dei diritti, in un momento di forti ingiustizie. Ma soprattutto un uomo che pur “identificando il proprio destino con quello dell’uomo e la propria tragedia con quella dell’esistenza” mantenne alta la propria dignità, un “eretico non di fronte alla religione ma di fronte alla vita” così come aveva fatto cinquant’anni prima Giordano Bruno che nel 1600 era stato arso al rogo a Roma per non aver mai ritrattato le sue idee.
Fra Diego, piccolo frate del nostro passato, si eterna in un grande uomo ribelle e diviene per noi siciliani, simbolo, del nostro desiderio e bisogno, al tempo stesso, di indipendenza. La sua vita e le sue azioni, emergono dalla nostra storia e ribadiscono, in una società odierna, offuscata dalle nebbie dell’appiattimento ideologico e culturale, che ognuno di noi non può e non deve essere privato della propria libertà di pensiero, un diritto imprescindibile per la nostra identità. Anche se oggi, sempre più spesso, ci ritroviamo imbrigliati nella fitta rete tessuta dalle moderne forme di inquisizione, generate da poteri politici chiusi nelle loro ideologie di sopraffazione e da logiche economiche di profitto, che, in modo subdolo si insinuano nella società, si travestono di democrazia e di forme di libertà di pensiero, ma in realtà strisciano viscide attraverso i mass media, le scuole e sgretolano in modo impercettibile valori e ideali fino a trasformarsi in convincimenti omologati delle masse inconsapevoli, in opinioni che intorpidiscono lo spirito critico, che indeboliscono la capacità di giudizio e che mirano ad annullare ogni forma di dissenso. Le nuove forme di inquisizione agiscono nell’ombra e, come bestie fameliche, divorano la nostra dignità di uomini liberi.
Perché come scrisse Leonardo Sciascia “Mi sono interessato all’Inquisizione poiché questa è lungi dal non esistere più nel mondo”.

domenica 9 gennaio 2022

Il Paladino Uzeta: il nostro riscatto

Nella nostra esistenza, sempre più dominata da un razionalismo imperante, le antiche leggende, come inaspettate luci, emergono dalle nebbie del nostro passato e si trasformano in simboli che ci ricordano la nostra vera essenza e ci permettono di condividere con i nostri antenati valori mai sopiti. Esempi di coraggio che ci spronano ad affrontare il nostro presente con dignità e fermezza. Come il paladino Uzeta, immortalato in uno dei quattro candelabri di Piazza Università che, con il suo sguardo austero, afferma con orgoglio l’atavica fierezza del popolo catanese.

Uzeta, figlio di un umile tessitore, della via Naumachia, era innamorato della principessa Galatea, ma consapevole del suo basso rango, volle riscattare le sue origini grazie al suo coraggio e alla sua determinazione. Lottando con vigore, sconfisse gli Ursini, i giganti saraceni che abitavano il Castello Ursino, conquistandolo e liberando la città dalla tirannia di quei mostri. Divenuto un eroe per i suoi concittadini, il re Cocolo lo nominò cavaliere e gli concesse in sposa la figlia Galatea. Ma il suo valore non lo fermò così, dopo aver liberato Catania, liberò anche Roma dai Berneri, Vienna dai Tartari, e divenne Principe del Simeto, Gonfaloniere della Chiesa e anche Arciduca di Vienna, e Cavaliere della Legion d’Onore.

Leggenda eroica che, oltre a celebrare la forza intrinseca del sentimento d’amore, pone in primo piano il temperamento audace di Uzeta. Ma soprattutto una leggenda di origini recenti, in quanto il personaggio del giovane paladino nacque agli inizi del Novecento, grazie alla fantasia di un noto puparo di Catania, Don Raffaele Trombetta che volle regalare alla città un paladino tutto catanese, ispirandosi a un antico mito popolare che narrava di mostruose creature mitologiche, che avevano conquistato il castello Ursino e che poi erano state spodestate nell’XI secolo dal conte normanno Ruggero. Leggendari giganti saraceni che, secondo la fantasia popolare, vennero chiamati Ursini, intrecciando così il mito con la realtà storica in quanto la fortezza, fatta ergere nel XIII secolo da Federico II, veniva chiamata Castrum Sinus, castello del golfo, poiché si trovava in una posizione dominante sul golfo catanese fino a che l’eruzione del 1699 non la circondò di lava allontanandola dal mare. Questa espressione latina, nel tempo, perse la sua pronuncia originaria acquisendo la sua denominazione attuale.

Qualche anno dopo, questa storia fu ripresa e trasformata in un romanzo a dispense dal giornalista Giuseppe Malfa, e affascinò fin da subito i catanesi che elevarono il paladino Uzeta a simbolo del coraggio insito in ognuno di loro e le sue gesta impavide lo resero un eroe dell’Opera dei Pupi, dove compare sempre con la sua armatura nera e con l’insegna del “Liotru”, l’elefante emblema della nostra città.  

Uzeta, si trasforma, negli anni, in una figura storica, e le sue imprese fanno di lui un uomo valoroso al pari di paladini come Orlando, Rinaldo o Bradamante. Eroe, accanto ai prodi che popolano i poemi cavallereschi, concretizza in sé il sentimento di riscatto non solo dei catanesi ma di tutto il popolo siciliano.

Un popolo che, lungo i secoli, ha sopportato con fiera dignità numerose dominazioni straniere, ma è sempre riuscito a scacciarle in nome di quel principio di libertà che lo ha sempre animato. E che oggi, nonostante sia stato martoriato da anni di politiche paralizzanti e svilenti e penalizzato da pesanti disagi economici e sociali, mostra con caparbia ostinazione tutto il suo coraggio nel voler valorizzare ad ogni costo questa nostra Isola.

Se, come sostiene la scrittrice Maiuri, la storia di Uzeta acquistò popolarità in un particolare momento storico sociale, negli anni in cui il sindaco socialista De Felice tentava di modernizzare la città, sollecitando i catanesi a riscattarsi, allora le sue gesta assurgono a modello da emulare e la sua storia si radica nelle coscienze per risvegliarle, per incitarle a non lasciarsi sconfiggere dalle difficoltà.

Però, nonostante il suo mito sia stato perpetuato in una scultura bronzea nel 1957 dagli artisti Mimì Maria Lazzaro e Domenico Tudisco e sia stato ricordato anche dal disegnatore Alex Maleev in un manifesto dell’Etna Comics nel 2017, il suo coraggio indomito e il significato profondo delle sue azioni, rischiano di perdersi tra i vicoli bui di una società soffocata da una piatta omologazione e di perdersi nei meandri dell’oblio.

Ma il paladino Uzeta, altero e sempre fedele ai propri ideali, con il suo sguardo fisso sulla nostra città, sembra non volersi arrendere di fronte all’attacco sempre più pressante di una massificazione culturale e morale che ci priva dei nostri valori più profondi e ci rende inconsapevolmente apatici.

Per nulla intimorito, con una mano stretta con decisione sullo scudo, continua a testimoniare con tenacia la sua dignità di uomo e la sua forte personalità per spronare i giovani catanesi a una rinnovata rinascita ricordando loro che ognuno di noi possiede dentro di se la forza per lottare e cambiare non solo il proprio destino, ma anche quello della nostra terra.

Pupi moderni senza onore

Nell’era della tecnologia e della multimedialità parlare dell’Opera dei Pupi significa ritornare indietro in un luogo sbiadito del nostro pa...