domenica 17 aprile 2022

Pupi moderni senza onore

Nell’era della tecnologia e della multimedialità parlare dell’Opera dei Pupi significa ritornare indietro in un luogo sbiadito del nostro passato e rievocare in noi colorate immagini di altri tempi: teatrini polverosi e piazze gremite di gente in attesa, in cui il vocio incessante, fatto di urla e risate fragorose, si mescola, fondendosi in un unico frastuono, con il rumore metallico delle armature di valorosi eroi che combattono nell’eterna lotta tra bene e male.

Questa nostra antica tradizione, affonda le sue origini nella Spagna del 500, successivamente si diffuse nell’Italia meridionale, prima a Napoli e poi qui in Sicilia tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800. Grazie alle storie raccontate dai Cantastorie, artisti girovaghi che narravano temi epici avvalendosi di musica e canto, e dai Cuntastorie (dal dialetto, U Cuntu: racconto), che invece narravano usando solamente le diverse intonazioni della voce e aiutandosi con la postura del corpo.

Questo fascinoso teatrino di marionette, denominate in dialetto Pupi, dalla parola latina Pupus, bambino, per la sua importanza nella nostra cultura popolare, è stato riconosciuto dall’Unesco come Capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’Umanità.

Lo storico Giuseppe Pitrè racconta che lo spettacolo dei Pupi era un avvenimento molto atteso per il popolo siciliano, che accorreva nelle piazze dove venivano allestiti dei piccoli teatri, e i Pupari, rappresentavano le storie prolungandole per più serate per accrescerne l’attesa. Esse venivano preannunciate da un Cartello, posto dinanzi alla porta del teatrino, che nella nostra tradizione catanese rappresentava la scena principale in primo piano.

E i testi tramandano che l’iniziatore a Catania fu Don Gaetano Crimi il quale aprì il suo primo teatro nel 1835.

I singoli protagonisti, Rinaldo, Orlando, Ruggero, Ferraù, Carlo Magno e i suoi paladini, con le loro armature riccamente decorate e attraverso i loro combattimenti, vivevano delle avventurose storie tratte dalla letteratura epico-cavalleresca di origine medievale, il ciclo carolingio, oppure da opere come l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Ma anche vicende religiose legate alla Passione di Cristo e alla vita dei Santi e ancora le imprese di Garibaldi e le storie dei briganti.

Anche se esiste una differenza di dimensioni tra i Pupi catanesi, più grandi e più pesanti, e quelli palermitani più piccoli e più agili nei movimenti, entrambi hanno affascinato sin da subito, il popolo con la rappresentazione di storie di dame e cavalieri, santi e angeli, amori e tradimenti, duelli e battaglie. Essi, con le loro mirabili azioni, riproponevano valori morali eterni che si riflettevano negli stili di vita dei siciliani e al tempo stesso trasmettevano codici di comportamento tipici degli eroi cavallereschi come il senso dell’onore, la difesa del debole e del giusto e una particolare devozione per la fede.

Ognuno di questi personaggi, pur nelle loro differenze caratteriali, diviene nel tempo espressione di giustizia e di quell’anelito di libertà a cui il popolo siciliano non ha mai rinunciato.

I pupi, ripercorrono vicende storiche reali e, con le loro gesta eroiche, trasmettono una saggezza profonda che racchiude in sé e perpetua principi universali che rendono le loro vicende esempi da seguire e non banali storie di potere o di vantaggio personale poiché tutte le loro azioni sono animate dai più alti e nobili sentimenti. Sentimenti che ci spronano e ci ricordano che al di là dello scontro visibile, ognuno di noi ha il dovere di combattere ogni giorno per la propria battaglia invisibile, quella che facciamo dentro di noi per difendere i nostri ideali, il nostro credo, ma ci incitano costantemente, attraverso il loro eroismo, a lottare con onore e con il massimo rispetto verso i valori umani, mostrandoci una visione etica del mondo.

Ma, in questo particolare momento storico, se lasciamo questo nostro passato e volgiamo lo sguardo al nostro presente veniamo catturati da un altro teatro in cui si muovono Pupi moderni senza onore. Veniamo avviluppati da una ben diversa rappresentazione, fatta da una fitta ragnatela di immagini che scorrono veloci sullo schermo dei nostri televisori, e che quotidianamente ci presentano, con efferata spudoratezza, lo spettacolo della prevaricazione e della sopraffazione.

Il rispetto per la vita viene frantumato dalle migliaia di schegge impazzite che sventrano l’esistenza di uomini, donne e bambini, l’onore viene seppellito nelle profondità delle macerie provocate dai bombardamenti e la brama di potere e di dominio di pochi viene sbandierata come una conquista in nome della libertà.

E la nostra umanità viene messa a tacere dai continui messaggi di odio, di incitamento a gioire della morte altrui, dell’ipotetico nemico, in una sorta di effimera giustificazione e troppo spesso ci dimentichiamo che siamo tutti Uomini.

Tutti partecipiamo della stessa energia dell’universo e niente e nessuno può arrogarsi il diritto di spezzare questa nostra armonia e precipitarci in una disumana bestialità perché la vera essenza di tutta la nostra esistenza è racchiusa in una celeberrima terzina:

“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

lunedì 21 marzo 2022

Il dubbio e il dogma

La nostra epoca, patinata e spudoratamente perfetta, in cui il cellulare e la nostra esistenza attraverso le sue immagini, occupano tutti i nostri pensieri, sembra aver deliberatamente soppresso il pensiero critico, annientato come un acerrimo nemico. E le nostre menti, ottenebrate da una confusione mistificatrice, sembrano aver sviluppato una sorta di intolleranza alla comprensione, trovando più comodo adagiarsi a una sorta di totalitarismo del pensiero unico. La pigrizia interiore ha preso il sopravvento e ci accontentiamo della prima verità assoluta che ci viene sbattuta in faccia dimenticando che il nostro Io per sentirsi vivo ha bisogno di ricerca, di riflessione e soprattutto di domande a cui dare risposte. Se non siamo animati da un dubbio perenne, dal continuo e incessante bisogno di capire il senso profondo di ciò che avviene intorno a noi, al di là di tutti i dogmi ideologici che ci vengono imposti quotidianamente, siamo solo burattini nelle mani di chi muove fili invisibili.

Nel corso della storia il dubbio ha generato importanti conoscenze in ogni campo, ha nutrito i pensieri di grandi uomini e donne tra cui Ipazia, nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 355 e figlia di Teone un matematico e scienziato. Essa, da sua allieva, gli succedette nell’insegnamento delle scienze matematiche nella scuola Alessandrina, ma non fu soltanto un’eccellente astronoma e matematica, la sua vivace intelligenza la portò a superare di molto tutti i filosofi del tempo e ad affermarsi come una filosofa neoplatonica di fama, per questo si dedicò con passione a insegnare e a trasmettere un modo di pensare filosofico a tutti quelli che accorrevano da ogni parte per ascoltarla.
Per Ipazia la filosofia era uno stile di vita da applicare ogni giorno ma soprattutto “una costante, religiosa, disciplinata ricerca della verità”.
Per questo ella spesso, indossava un mantello e insegnava pubblicamente per le strade della città, dimostrando consapevolezza di se stessa e audacia in quanto continuava a diffondere una disciplina che è stata bandita dalla Chiesa con l’editto di Costantino prima e poi con l’Editto di Intolleranza di Teodosio.
Nonostante i templi dell’antica religione fossero stati demoliti per ordine del vescovo Teofilo, lei, conscia della propria libertà intellettuale, non si lasciò intimorire e acquisì sempre più prestigio culturale che con il tempo si trasformò anche in influenza politica. Ipazia era una donna di grandi capacità dialettiche e affascinava per la sua ieratica compostezza e raffinatezza inoltre si dimostrò esperta di dottrine politiche e una profonda conoscitrice della società in cui viveva per questo discuteva senza imbarazzo con i capi della città che andavano da lei prima di prendere delle decisioni pubbliche, soprattutto il prefetto augustale poiché Alessandria era una provincia d’Egitto assoggettata al potere centrale romano.
Ipazia fu rispettata da tutti, soprattutto per la sua saggezza poiché mantenne sempre un atteggiamento moderato e tollerante che la induceva ad affrontare i problemi trovando sempre una mediazione non prendendo mai una posizione tra un partito o l’altro per pregiudizio ma esaminando sempre ognuno dei problemi in modo del tutto indipendente dalle implicazioni, ideologiche politiche o religiose.
Ma come ogni mente libera si scontrò con la presunta intransigenza religiosa del vescovo Cirillo che invece perseguiva una strategia di ingerenza giurisdizionale ai poteri civili dello stato. Notando la sua forte influenza politica, iniziò una campagna diffamatoria contro di lei e a calunniarla accusandola di essere una strega, dedita alla magia, per ingannare con stratagemmi satanici. Così mentre stava ritornando a casa, fu aggredita da un gruppo di cristiani, la trascinarono in chiesa, le strapparono le vesti e la uccisero a colpi di cocci, poi la fecero a pezzi e li bruciarono per cancellare ogni traccia di lei.
L’omicidio di Ipazia testimonia lungo i secoli l’eterno contrasto tra il dubbio, come filosofia di una vita libera da pregiudizi, e l’intransigenza del dogma che rinchiude dentro schemi rigidi in una vana illusione di libertà.
Una lotta di potere, un conflitto mai risolto tra la libertà di pensiero, la continua ricerca, e una ferrea volontà di imporre un’unica legge, un’unica visione della realtà.
Ipazia e Cirillo divengono, così, metafora del dramma archetipico che coinvolge tutti noi. E ricordarla significa ricordare a noi stessi che non esiste una verità assoluta ma dobbiamo sempre perseguire il relativamente e empiricamente giusto o il relativamente o empiricamente sbagliato. Il nostro compito primario è quello di mantenere sempre un approccio critico e consapevole, senza lasciarci sedurre dalla superficialità di opinioni presentate come certezze universali.
Anche se viviamo in una società caratterizzata da dogmatismi e integralismi di vario genere, e risulta difficile combattere per il dubbio, non dimentichiamoci mai di farlo.
Lo dobbiamo alla nostra identità e alla onestà intellettuale di una comunità vera e raziocinante.

lunedì 7 marzo 2022

Il fatidico 8 Marzo

Questa nostra società, preoccupata di mantenere inalterata la sua apparente perfezione e affannata nella sua spasmodica ricerca di porsi come un modello moralmente impeccabile, con una regolarità sempre più incalzante, ci propina tutta una serie di commemorazioni, di giorni in cui noi, piccoli ingranaggi di un gigantesco orologio del tempo, sembriamo fermarci e concentrarci su un ricordo del nostro passato. Ed ecco che ognuno di noi all’improvviso sente il bisogno di dire qualcosa, di fare qualcosa di importante altrimenti si corre il rischio di essere accusati di insensibilità. Ma poiché siamo così assuefatti alla frettolosità e alla leggerezza come se camminassimo perennemente sulla superficie delle nostre esistenze senza mai scendere in profondità, questi giorni diventano per noi un’altra occasione per distrarci e per continuare ostinatamente a non soffermarci su noi stessi e su ciò che è veramente importante.

E così anche oggi, l’osannato 8 Marzo, il giorno che tutte noi donne aspettiamo come una rivelazione profetica, in cui possiamo e dobbiamo rivendicare la nostra femminilità, il nostro essere alla pari se non addirittura superiori ai nostri presunti antagonisti di sempre: gli uomini.

Ma anche noi sperse nell’universo di fatuità che sembra stritolarci tutti senza alcuna via di scampo, invece di affermare noi stesse per ciò che siamo, rincorriamo e seguiamo gli illusori segnali che ci inviano le logiche di mercato e dei consumi, che ci abbagliano con le loro immagini colorate e che travestono la pura materialità di ideali.

Ma soprattutto dobbiamo arrivare preparate a questo grande giorno!

Così, a partire dalla settimana precedente, per paura che ce ne possa sfuggire qualcuna, arrivano, puntuali, infinite promozioni dedicate esclusivamente a noi. Negozi di abbigliamento, gioiellerie, profumerie, centri estetici ma anche gli articoli più assurdi che non compreremmo mai, che non rientrano nei nostri desideri ma che forse in un momento di esaltazione, soggiogate dalla incontrollabile smania di non perdere tutti questi sconti creati solo per festeggiarci, potrebbero catturare la nostra attenzione.  E il martellamento dei messaggi sui nostri cellulari, invasi da offerte che intasano la nostra casella postale, diventa ogni momento sempre più pressante come per scolpire in modo indelebile nella nostra anima una sola e impellente consapevolezza: l’8 marzo è l’unico giorno in cui tutto l’universo si ricorda di noi e la nostra presenza su questa terra trova la sua piena manifestazione in queste preziose ventiquattro ore.

E noi donne, senza accorgerci di essere avviluppate in questa rete frenetica di condizionamenti, senza nemmeno sapere il perché entriamo in fermento come se questo giorno fosse la nostra ultima possibilità di riemergere dall’oblio delle nostre giornate. In un risveglio irreale delle nostre identità, ci affanniamo a cercare noi stesse nella esteriorità delle nostre vite e organizziamo “uscite” con le amiche, una cena, un drink purchè siano solo donne senza la presenza ingombrante del nemico-uomo.

E questo giorno si svuota dei suoi significati più intrinseci, della sua valenza celebrativa e si trasforma in un’occasione per divertirci, perché il divertimento ci è stato servito come il piatto basilare e centrale, come il solo modo per allentare la strette maglie della nostra perenne e frenetica corsa. Con le sue luci ci disorienta e non ci permette di vedere che invece di allontanarci dalle nostre angosce, ci fa sprofondare ancora più in basso.  Non ci permette di comprendere che, quando il giorno dopo, i riflettori si spengono, tutto ritorna a scorrere esattamente come prima, con i suoi problemi e i suoi intoppi.

Ma questo fatidico 8 Marzo, giorno atteso, acclamato, criticato, svilito, pur con queste sue perenni e inevitabili contraddizioni, racchiude in sé una sua profondità. Volenti o nolenti, costringe tutti, donne e uomini, a guardarsi veramente, l’uno di fronte all’altro, e a confrontarsi sul proprio ruolo nell’eterna altalena della vita.

Quindi oggi fermiamoci per davvero, volgiamo i nostri pensieri alle donne del nostro passato che hanno lottato per i diritti di cui godiamo e che hanno sacrificato la propria vita pur di consegnare a noi questa nostra emancipazione.

Senza lasciarci ottenebrare dall’incessante vocio esterno, cerchiamo di ascoltare solamente la nostra voce interiore spinti dalla voglia di capire chi siamo, chi vogliamo essere e come vogliamo che sia il nostro futuro.

Oggi fermiamoci tutti, donne e uomini, consci di essere tutti partecipi di un’unica dimensione in cui non esistono differenze o contrapposizioni, ma inclusività e accettazione l’uno dell’altro in un rapporto di rispetto reciproco, oggi come ogni singolo giorno della nostra quotidianità.

lunedì 21 febbraio 2022

Essere donna è una colpa

La nostra società, di ieri come oggi, è, purtroppo, troppo spesso, costellata di storie di donne svilite dalla presunta superiorità di uomini rispettabili che, eredi di una cultura maschilista, ben annidata tra i loro convincimenti perbenisti, relazionano con loro oggettivandole.

La donna è solo un oggetto su cui poter esercitare il proprio possesso e scaricare le proprie pulsioni.
Così come lo è la giovane contadina protagonista della novella “Tentazione” di Giovanni Verga, scrittore verista che ha analizzato con lucida crudezza sentimenti e passioni radicati in un nodo indissolubile con l’anima selvaggia della nostra terra.
Nel breve racconto, i tre giovani, Ambrogio, Carlo e il Pigna, dopo aver bevuto ed essersi divertiti a una festa serale a Vaprio nei pressi di Milano, tagliano per i campi in modo da raggiungere la stazione dei tram. Ma lungo la strada incontrano una giovane contadina e, dopo aver scherzato con lei, afferrati da un incontrollabile desiderio sessuale, la stuprano e, per paura di essere denunciati, la strangolano. Sprezzanti di fronte alla ragazza a terra senza vita, le tagliano la testa per nascondere il corpo in una fossa.
I tre uomini non mostrano alcuna pietà e, diventano, essi stessi, emblema di una visione degradata della donna e del valore della sua vita. Pur non essendo dei criminali, pongono in primo piano solo l’istinto primordiale di possedere, cedono alle proprie pulsioni e si trasformano in stupratori e assassini. Rafforzati l’uno dalla brutalità dell’altro nell’illusione che la violenza di gruppo possa in qualche modo annullare ogni responsabilità individuale.
E, nella nostra moderna società, nulla sembra essere cambiato dai tempi del Verga, ogni qual volta si verifica uno stupro di gruppo. Quando il branco accerchia e attacca la propria preda, l’oggetto del proprio desiderio, ogni singolo membro acquista forza dall’unione con gli altri, crede di trovare protezione nel gruppo, senza rendersi conto che in realtà si tratta di una sconfitta per la propria identità di uomo.
In passato come oggi.
I tre ragazzi del racconto incarnano la mentalità maschilista dell’uomo di tutti i tempi, che vede nella donna una tentazione, un pericolo per sé.
“Era un bel tocco di ragazza, di quelle che fan venire la tentazione a incontrarle sole” scrive Verga.
Un pregiudizio maschile che domina da tempi immemori e che attribuisce a ogni donna la colpa atavica di Eva, la prima donna che tentò Adamo e lo portò a commettere il peccato originale condannandolo alla morte.
Così l’uomo proietta nella donna i propri desideri, li giustifica e la stigmatizza come tentatrice.
La figura femminile de “la Lupa” di Verga per il solo fatto di avere “un seno fermo, delle labbra fresche e rosse e di indossare una gonnella” viene emarginata dalla comunità e considerata come una “cagnaccia”.
Essere femmina è di per sé una colpa, ancora oggi, tutte le volte che la vittima paradossalmente viene accusata di aver indotto al comportamento sbagliato con un abbigliamento provocatorio. In uno scambio perverso di ruoli, la donna diviene carnefice di uomini- vittime della sua presunta tentazione. L’identità della donna viene degradata a un oggetto, mentre quella dell’uomo si trincera dietro false motivazioni che legittimano le sue azioni e non la intaccano. La donna perde la propria dignità due volte, la prima quando il suo corpo è stato utilizzato per soddisfare istinti animaleschi, la seconda, quando viene lacerata da una società che invece di proteggerla, la colpevolizza.
Ma essere donna significa affermare se stessa con le proprie emozioni e i propri pensieri, per non arrendersi di fronte a questi comportamenti vessatori e limitanti della proprie libertà. E nonostante oggi la maggior parte abbia raggiunto un’indipendenza economica, e tutte hanno visti riconosciuti i propri diritti, nel 1946 le donne votarono per la prima volta in Italia, nel 1948 la Costituzione stabilì l’uguaglianza tra i sessi e nel 1975 una legge decretò la parità di diritti tra marito e moglie, ancora, nella nostra società proiettata verso un futuro d’avanguardia, esistono arcaiche sacche di mentalità maschilista in cui la donna è continuamente soggetta a pregiudizi, radicati in convinzioni difficili da estirpare come se alcuni uomini avessero ancora paura di essere delegittimati nella propria mascolinità di fronte alle capacità femminili.
Ma ogni donna possiede in sé la forza di continuare a lottare perché come ha affermato Oriana Fallaci:
“Essere donna è così affascinante, è un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai”.

Lady Lilith, di Dante Gabriel Rossetti (1866–1873), Delaware Art Museum.

domenica 6 febbraio 2022

Le donne osano pensare

“L’uomo è per natura superiore e la donna inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata” così scriveva Aristotele nel libro primo della sua opera Politica.

E così come lui, lungo il corso dei secoli, filosofi, uomini di rilievo e persino santi della Chiesa hanno impresso sui loro scritti considerazioni svilenti sulla donna.
Locke scrive che per “differente intelligenza e volontà”, la moglie è subordinata al marito, l’unico in grado di comandare in quanto “più abile e più forte”.
Rousseau, il filosofo ispiratore della rivoluzione francese e fermo assertore della dignità dell’individuo, afferma che “la donna rappresenta un essere subordinato e funzionale al maschio”.
E ancora San Paolo, nelle sue epistole, sostiene che la donna è inferiore all’uomo in tutti i suoi diritti.
Parole, pesanti come macigni, impresse a fuoco come un marchio distintivo, sulla pelle di ogni donna, che si sono tramutate in concezioni che hanno impregnato mentalità e abitudini di società caratterizzate da un maschilismo ottuso, fatto di umiliazioni e soprusi, in cui però, le donne non si sono mai arrese e hanno affermato se stesse e la propria dignità dimostrando quanto possano essere forti e determinate al di là di pregiudizi vacui e misogini.
Donne coraggiose, figlie selvagge della nostra Sicilia, che hanno lottato e rotto schemi stereotipati come Francisca Massara che, nel 1698, è stata la prima donna in Europa a indossare i pantaloni, o la baronessa Maria Paternò che, nel 1808, scardinò la ferrea struttura patriarcale per affermare i propri diritti di donna e fu la prima in Italia ad ottenere il divorzio. E ancora Franca Viola che negli anni ’60 rifiutò un matrimonio riparatore con l’uomo che l’aveva stuprata, travolgendo le leggi d’onore e morali che permettevano all’uomo di disporre della vita e della dignità di una donna.
Donne che hanno rivendicato il loro diritto allo studio, da secoli prerogativa esclusiva degli uomini, e che non solo hanno imparato a leggere e scrivere ma sono diventate poetesse come Mariannina Coffa che, in una Noto dell’Ottocento, non si lasciò intimorire da un marito e una famiglia che consideravano lo scrivere uno strumento di perdizione, e compose versi, di nascosto al lume di candela, tramite i quali espresse i suoi sentimenti e i suoi pensieri contro una società gretta e meschina che, quando decise di lasciare il marito per dedicarsi alla poesia, la ritenne “Pazza”.
E scrittrici che, per risvegliare le coscienze, hanno denunciato queste condizioni di prevaricazioni fisiche e psicologiche come Dacia Maraini che con il romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria” racconta la vita di una sua antenata, vissuta a Palermo nel Settecento in una nobile famiglia palermitana. Marianna detta “La mutola” poiché ha perso la voce dopo essere stata violentata a quattro anni dallo zio materno, al quale però viene data in sposa a tredici anni in un matrimonio riparatore, nonostante la sua opposizione. Marianna, figlia “difettosa” costretta a sposare un uomo molto più grande di lei “Signor marito zio” accetta il suo destino, ma, pur essendo considerata poco intelligente per via della sua menomazione, riesce a trovare una via di scampo, e impara a leggere e a scrivere. Così, se all’esterno non ha possibilità di far sentire la sua voce, ella sviluppa, attraverso la conoscenza e le letture illuministiche, una acuta sensibilità che la porta a riflettere sulla libertà, sulla sua condizione e su quella di tutte le altre donne. In questo modo riesce a riscattarsi, a dare un senso alla sua esistenza, e di conseguenza ad affermare la sua dignità di donna.
Personaggio forte e fragile al tempo stesso, non si lascia relegare in un angolo buio da una morale misera e così la sua condizione diviene metafora della condizione di tutte le donne sottomesse e dunque private della loro voce.
Ma le donne di ogni tempo, hanno sempre fatto sentire la loro voce, l’hanno urlata con prepotente audacia, consapevoli del loro valore e delle proprie potenzialità e hanno affrontato e scardinato, con la fermezza della propria identità, atavici preconcetti, che umiliavano le loro dignità e le confinavano a un ruolo marginale in ambito domestico.
Stereotipi che, però, purtroppo, ancora oggi si nascondono tra le pieghe di una società apparentemente inclusiva e paritaria; una società in cui la donna viene vista, non per ciò che è, ma innanzitutto e soprattutto come “un corpo” da mettere in bella mostra in pubblicità frivole o come contorno in trasmissioni televisive.
Il Primo rapporto Tematico di genere del Consorzio Interuniversitario Almalaurea, pubblicato recentemente, ha evidenziato in modo chiaro che esiste una effettiva disparità tra uomo e donna anche nel mondo del lavoro. Nonostante abbiano voti migliori, alla resa dei conti lavorano meno, in condizioni peggiori e con una retribuzione minore.
Un disequilibrio che affonda le sue giustificazioni in una cultura che si è consolidata nel tempo, che purtroppo è divenuta consuetudine, comportamento diffuso e convenzioni non scritte.
Una disparità voluta e mantenuta da sempre da uomini che più che affermare la propria superiorità hanno resa manifesta l’inconscia paura di apparire inadeguati, convinti di perdere la propria mascolinità di fronte alle donne che “osano pensare”.

domenica 23 gennaio 2022

La moderna Inquisizione

Nel corso dei secoli l’arroganza della prevaricazione ha infettato, come un virus letale, poteri politici e religiosi che, trincerati dietro false maschere di perbenismo e moralità, hanno tentato di annientare la libertà di pensiero di chiunque potesse metterli in discussione.

Tutta la storia dell’umanità è intrisa di ingiustizie e di abusi, che hanno rivelato con cruda ferocia a quanto l’animo umano possa arrivare, a quanto l’uomo sia capace di compiere pur di affermare se stesso a scapito dal proprio simile. Ma al tempo stesso è intrisa del coraggio, della determinazione e della tenacia di chi ha opposto il valore inappellabile e inalienabile della propria libertà di pensiero.
Realtà umana, che traspare in tutta la sua forza nel libro del 1964 di Leonardo Sciascia “Morte Dell’Inquisitore”. Un’inchiesta storica in cui lo scrittore siciliano ripercorre la triste vicenda del frate di Racalmuto, Diego La Matina (1622-1658) che fu vittima della follia repressiva che contraddistinse l’Inquisizione spagnola in Sicilia, tra il XV e il XVIII secolo che, con la connivenza del potere locale, condusse al rogo 234 vittime.
Sciascia, basandosi sui pochi documenti a disposizione - nel 1783, un anno dopo l’abolizione dell’istituto dell’Inquisizione, l’archivio del tribunale a Palermo fu incendiato per ordine del vicerè Caracciolo - scrive che fra Diego la Matina fu arrestato con l’accusa di eresia per ben tre volte, ma era stato liberato poiché aveva abiurato. Ma nel 1656 fu arrestato di nuovo e condotto alle carceri di Palazzo Steri a Palermo, da dove riuscì a fuggire ma solo per un breve periodo. Durante quest’ ultima carcerazione subì incessanti torture che, logorandolo, lo indussero a scagliarsi contro il suo carnefice, monsignor de Cisneros, e a colpirlo con i ferri che aveva ai polsi, uccidendolo.
Questo suo ultimo atto gli valse la pena di morte. Così due anni dopo fu preparato uno spettacolo pubblico, con palchi addobbati, invitati illustri e banchetti per celebrare la sua condanna.
Fu condotto legato a una sedia e imbavagliato davanti al tribunale dell’Inquisizione presieduto da Los Cameros e gli fu letta la sua colpa: ERETICO.
E, poco prima di morire, a dimostrazione che non si era piegato, pronunciò una frase emblematica: Dunque Dio è ingiusto.
Parole forti che racchiudono in sé, tutta la sua disperata consapevolezza dell’ingiustizia imperante nella società, nelle leggi che la regolavano e nella religione che agiva con ferocia proclamandosi invece una fede di carità e amore
Le menzogne proferite dagli inquisitori, rivelano tutta la loro nefandezza nell’accusa mossa al frate di essere un uomo rozzo, incolto e ignorante, quando invece egli era perfettamente in grado di sostenere discussioni dotte come nell’ultima notte con i nove teologi che tentarono di farlo abiurare. La loro ipocrita mistificazione della realtà mostra con evidente chiarezza il modus operandi della Santa Inquisizione, una struttura ben organizzata e disposta a tutto pur di schiacciare ogni forma di indipendenza intellettuale.
Ma, come scrive Sciascia, fra Diego rimase immutato e fermo nel suo “Tenace Concetto”, e sostenne con determinazione una sua concezione della vita e della religione anche se in contrasto con quelle che la Chiesa voleva imporre.
Attraverso la sua storia Sciascia, mise in primo piano la fierezza di un uomo che non ebbe paura di far sentire la sua voce, che “agitò il problema della giustizia” contro le ingiustizie sociali, contro le iniquità e contro le usurpazioni dei beni e dei diritti, in un momento di forti ingiustizie. Ma soprattutto un uomo che pur “identificando il proprio destino con quello dell’uomo e la propria tragedia con quella dell’esistenza” mantenne alta la propria dignità, un “eretico non di fronte alla religione ma di fronte alla vita” così come aveva fatto cinquant’anni prima Giordano Bruno che nel 1600 era stato arso al rogo a Roma per non aver mai ritrattato le sue idee.
Fra Diego, piccolo frate del nostro passato, si eterna in un grande uomo ribelle e diviene per noi siciliani, simbolo, del nostro desiderio e bisogno, al tempo stesso, di indipendenza. La sua vita e le sue azioni, emergono dalla nostra storia e ribadiscono, in una società odierna, offuscata dalle nebbie dell’appiattimento ideologico e culturale, che ognuno di noi non può e non deve essere privato della propria libertà di pensiero, un diritto imprescindibile per la nostra identità. Anche se oggi, sempre più spesso, ci ritroviamo imbrigliati nella fitta rete tessuta dalle moderne forme di inquisizione, generate da poteri politici chiusi nelle loro ideologie di sopraffazione e da logiche economiche di profitto, che, in modo subdolo si insinuano nella società, si travestono di democrazia e di forme di libertà di pensiero, ma in realtà strisciano viscide attraverso i mass media, le scuole e sgretolano in modo impercettibile valori e ideali fino a trasformarsi in convincimenti omologati delle masse inconsapevoli, in opinioni che intorpidiscono lo spirito critico, che indeboliscono la capacità di giudizio e che mirano ad annullare ogni forma di dissenso. Le nuove forme di inquisizione agiscono nell’ombra e, come bestie fameliche, divorano la nostra dignità di uomini liberi.
Perché come scrisse Leonardo Sciascia “Mi sono interessato all’Inquisizione poiché questa è lungi dal non esistere più nel mondo”.

domenica 9 gennaio 2022

Il Paladino Uzeta: il nostro riscatto

Nella nostra esistenza, sempre più dominata da un razionalismo imperante, le antiche leggende, come inaspettate luci, emergono dalle nebbie del nostro passato e si trasformano in simboli che ci ricordano la nostra vera essenza e ci permettono di condividere con i nostri antenati valori mai sopiti. Esempi di coraggio che ci spronano ad affrontare il nostro presente con dignità e fermezza. Come il paladino Uzeta, immortalato in uno dei quattro candelabri di Piazza Università che, con il suo sguardo austero, afferma con orgoglio l’atavica fierezza del popolo catanese.

Uzeta, figlio di un umile tessitore, della via Naumachia, era innamorato della principessa Galatea, ma consapevole del suo basso rango, volle riscattare le sue origini grazie al suo coraggio e alla sua determinazione. Lottando con vigore, sconfisse gli Ursini, i giganti saraceni che abitavano il Castello Ursino, conquistandolo e liberando la città dalla tirannia di quei mostri. Divenuto un eroe per i suoi concittadini, il re Cocolo lo nominò cavaliere e gli concesse in sposa la figlia Galatea. Ma il suo valore non lo fermò così, dopo aver liberato Catania, liberò anche Roma dai Berneri, Vienna dai Tartari, e divenne Principe del Simeto, Gonfaloniere della Chiesa e anche Arciduca di Vienna, e Cavaliere della Legion d’Onore.

Leggenda eroica che, oltre a celebrare la forza intrinseca del sentimento d’amore, pone in primo piano il temperamento audace di Uzeta. Ma soprattutto una leggenda di origini recenti, in quanto il personaggio del giovane paladino nacque agli inizi del Novecento, grazie alla fantasia di un noto puparo di Catania, Don Raffaele Trombetta che volle regalare alla città un paladino tutto catanese, ispirandosi a un antico mito popolare che narrava di mostruose creature mitologiche, che avevano conquistato il castello Ursino e che poi erano state spodestate nell’XI secolo dal conte normanno Ruggero. Leggendari giganti saraceni che, secondo la fantasia popolare, vennero chiamati Ursini, intrecciando così il mito con la realtà storica in quanto la fortezza, fatta ergere nel XIII secolo da Federico II, veniva chiamata Castrum Sinus, castello del golfo, poiché si trovava in una posizione dominante sul golfo catanese fino a che l’eruzione del 1699 non la circondò di lava allontanandola dal mare. Questa espressione latina, nel tempo, perse la sua pronuncia originaria acquisendo la sua denominazione attuale.

Qualche anno dopo, questa storia fu ripresa e trasformata in un romanzo a dispense dal giornalista Giuseppe Malfa, e affascinò fin da subito i catanesi che elevarono il paladino Uzeta a simbolo del coraggio insito in ognuno di loro e le sue gesta impavide lo resero un eroe dell’Opera dei Pupi, dove compare sempre con la sua armatura nera e con l’insegna del “Liotru”, l’elefante emblema della nostra città.  

Uzeta, si trasforma, negli anni, in una figura storica, e le sue imprese fanno di lui un uomo valoroso al pari di paladini come Orlando, Rinaldo o Bradamante. Eroe, accanto ai prodi che popolano i poemi cavallereschi, concretizza in sé il sentimento di riscatto non solo dei catanesi ma di tutto il popolo siciliano.

Un popolo che, lungo i secoli, ha sopportato con fiera dignità numerose dominazioni straniere, ma è sempre riuscito a scacciarle in nome di quel principio di libertà che lo ha sempre animato. E che oggi, nonostante sia stato martoriato da anni di politiche paralizzanti e svilenti e penalizzato da pesanti disagi economici e sociali, mostra con caparbia ostinazione tutto il suo coraggio nel voler valorizzare ad ogni costo questa nostra Isola.

Se, come sostiene la scrittrice Maiuri, la storia di Uzeta acquistò popolarità in un particolare momento storico sociale, negli anni in cui il sindaco socialista De Felice tentava di modernizzare la città, sollecitando i catanesi a riscattarsi, allora le sue gesta assurgono a modello da emulare e la sua storia si radica nelle coscienze per risvegliarle, per incitarle a non lasciarsi sconfiggere dalle difficoltà.

Però, nonostante il suo mito sia stato perpetuato in una scultura bronzea nel 1957 dagli artisti Mimì Maria Lazzaro e Domenico Tudisco e sia stato ricordato anche dal disegnatore Alex Maleev in un manifesto dell’Etna Comics nel 2017, il suo coraggio indomito e il significato profondo delle sue azioni, rischiano di perdersi tra i vicoli bui di una società soffocata da una piatta omologazione e di perdersi nei meandri dell’oblio.

Ma il paladino Uzeta, altero e sempre fedele ai propri ideali, con il suo sguardo fisso sulla nostra città, sembra non volersi arrendere di fronte all’attacco sempre più pressante di una massificazione culturale e morale che ci priva dei nostri valori più profondi e ci rende inconsapevolmente apatici.

Per nulla intimorito, con una mano stretta con decisione sullo scudo, continua a testimoniare con tenacia la sua dignità di uomo e la sua forte personalità per spronare i giovani catanesi a una rinnovata rinascita ricordando loro che ognuno di noi possiede dentro di se la forza per lottare e cambiare non solo il proprio destino, ma anche quello della nostra terra.

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