domenica 6 febbraio 2022

Le donne osano pensare

“L’uomo è per natura superiore e la donna inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata” così scriveva Aristotele nel libro primo della sua opera Politica.

E così come lui, lungo il corso dei secoli, filosofi, uomini di rilievo e persino santi della Chiesa hanno impresso sui loro scritti considerazioni svilenti sulla donna.
Locke scrive che per “differente intelligenza e volontà”, la moglie è subordinata al marito, l’unico in grado di comandare in quanto “più abile e più forte”.
Rousseau, il filosofo ispiratore della rivoluzione francese e fermo assertore della dignità dell’individuo, afferma che “la donna rappresenta un essere subordinato e funzionale al maschio”.
E ancora San Paolo, nelle sue epistole, sostiene che la donna è inferiore all’uomo in tutti i suoi diritti.
Parole, pesanti come macigni, impresse a fuoco come un marchio distintivo, sulla pelle di ogni donna, che si sono tramutate in concezioni che hanno impregnato mentalità e abitudini di società caratterizzate da un maschilismo ottuso, fatto di umiliazioni e soprusi, in cui però, le donne non si sono mai arrese e hanno affermato se stesse e la propria dignità dimostrando quanto possano essere forti e determinate al di là di pregiudizi vacui e misogini.
Donne coraggiose, figlie selvagge della nostra Sicilia, che hanno lottato e rotto schemi stereotipati come Francisca Massara che, nel 1698, è stata la prima donna in Europa a indossare i pantaloni, o la baronessa Maria Paternò che, nel 1808, scardinò la ferrea struttura patriarcale per affermare i propri diritti di donna e fu la prima in Italia ad ottenere il divorzio. E ancora Franca Viola che negli anni ’60 rifiutò un matrimonio riparatore con l’uomo che l’aveva stuprata, travolgendo le leggi d’onore e morali che permettevano all’uomo di disporre della vita e della dignità di una donna.
Donne che hanno rivendicato il loro diritto allo studio, da secoli prerogativa esclusiva degli uomini, e che non solo hanno imparato a leggere e scrivere ma sono diventate poetesse come Mariannina Coffa che, in una Noto dell’Ottocento, non si lasciò intimorire da un marito e una famiglia che consideravano lo scrivere uno strumento di perdizione, e compose versi, di nascosto al lume di candela, tramite i quali espresse i suoi sentimenti e i suoi pensieri contro una società gretta e meschina che, quando decise di lasciare il marito per dedicarsi alla poesia, la ritenne “Pazza”.
E scrittrici che, per risvegliare le coscienze, hanno denunciato queste condizioni di prevaricazioni fisiche e psicologiche come Dacia Maraini che con il romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria” racconta la vita di una sua antenata, vissuta a Palermo nel Settecento in una nobile famiglia palermitana. Marianna detta “La mutola” poiché ha perso la voce dopo essere stata violentata a quattro anni dallo zio materno, al quale però viene data in sposa a tredici anni in un matrimonio riparatore, nonostante la sua opposizione. Marianna, figlia “difettosa” costretta a sposare un uomo molto più grande di lei “Signor marito zio” accetta il suo destino, ma, pur essendo considerata poco intelligente per via della sua menomazione, riesce a trovare una via di scampo, e impara a leggere e a scrivere. Così, se all’esterno non ha possibilità di far sentire la sua voce, ella sviluppa, attraverso la conoscenza e le letture illuministiche, una acuta sensibilità che la porta a riflettere sulla libertà, sulla sua condizione e su quella di tutte le altre donne. In questo modo riesce a riscattarsi, a dare un senso alla sua esistenza, e di conseguenza ad affermare la sua dignità di donna.
Personaggio forte e fragile al tempo stesso, non si lascia relegare in un angolo buio da una morale misera e così la sua condizione diviene metafora della condizione di tutte le donne sottomesse e dunque private della loro voce.
Ma le donne di ogni tempo, hanno sempre fatto sentire la loro voce, l’hanno urlata con prepotente audacia, consapevoli del loro valore e delle proprie potenzialità e hanno affrontato e scardinato, con la fermezza della propria identità, atavici preconcetti, che umiliavano le loro dignità e le confinavano a un ruolo marginale in ambito domestico.
Stereotipi che, però, purtroppo, ancora oggi si nascondono tra le pieghe di una società apparentemente inclusiva e paritaria; una società in cui la donna viene vista, non per ciò che è, ma innanzitutto e soprattutto come “un corpo” da mettere in bella mostra in pubblicità frivole o come contorno in trasmissioni televisive.
Il Primo rapporto Tematico di genere del Consorzio Interuniversitario Almalaurea, pubblicato recentemente, ha evidenziato in modo chiaro che esiste una effettiva disparità tra uomo e donna anche nel mondo del lavoro. Nonostante abbiano voti migliori, alla resa dei conti lavorano meno, in condizioni peggiori e con una retribuzione minore.
Un disequilibrio che affonda le sue giustificazioni in una cultura che si è consolidata nel tempo, che purtroppo è divenuta consuetudine, comportamento diffuso e convenzioni non scritte.
Una disparità voluta e mantenuta da sempre da uomini che più che affermare la propria superiorità hanno resa manifesta l’inconscia paura di apparire inadeguati, convinti di perdere la propria mascolinità di fronte alle donne che “osano pensare”.

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